Neri

GRUPPO
 Neri
 
PERCORSO  FUMETTI ITALIANI DOPOGUERRA
EDITORE
NAZIONE  Italy
ANNO  
NOTE  

IL FUMETTO SCOPRE IL NOIR *

 

di Maurizio Scudiero

 

 

Come si sa, quando Richard Felton Outcault, che sul finire del XIX secolo pubblicava ogni domenica sul “World” di New York, un racconto grafico titolato «Hogan’Alley» che aveva come principale personaggio un ragazzo che se ne andava in giro con un camicione giallo (Yellow Kid), pensò bene di aggiungere dei «ballons», dei «palloni» o nuvolette di fumo dove collocare del testo, cioè i dialoghi (e di qui, in Italia, il termine «fumetti»), ebbene possiamo dire che è nato il fumetto “comico” ( e di qui il termine onnicomprensivo di “comics” ad ogni genere di fumetto), ovvero un nuovo genere di comunicazione di massa. Ma da allora esso rimase appunto a lungo ancorato al genere umoristico. Sembrava infatti che quella del ridere fosse l’unica possibilità concessa a questa nuova forma espressiva.
Nel frattempo, però, nei paesi anglosassoni, e massimamente negli Stati Uniti, sulla scia della letteratura horror e noir ottocentesca (da Poe a Conan Doyle) sorse una nuova tipologia di “bassa-letteratura”, fatta di novels di carattere poliziesco, riviste e dispense di poche pagine stampate su carta povera e proprio per questo ben presto definite pulp magazines. Le leggevano avidamente i milioni di viaggiatori che alla sera tornavano a casa dal lavoro, nelle periferie delle grandi città, soprattutto. Letteratura amena, d’intrattenimento, spesso, appunto, da affiancare a ben più veloce lettura dei comics, dalle pagine dei quotidiani. In breve tempo tutti conobbero nomi come Nick Carter “il gran poliziotto americano”, Giuseppe Petrosino “il Sherlock Holmes d’Italia” (ovviamente trapiantato a New York), Nat Pinkerton “il re dei poliziotti”, William King “il re degli avventurieri”, “Raffles” il ladro gentiluomo, Lord Lister “il ladro misterioso”, e così via.
Ma anche l’Europa, in questa nuova tranche letteraria, voleva i suoi eroi, positivi o negativi che fossero, ed uno dei primi venne dalla Francia, destinato a lasciare un’impronta indelebile nella letteratura noir: Arsenio Lupin (1905). Soprannominato “ladro gentiluomo”, fu, assieme a Sherlock Holmes, un vero successo editoriale nell’ambito della letteratura poliziesca dei primi tre decenni del secolo XX. Infatti, all’inizio, così come il personaggio di Conan Doyle, anche Arsenio Lupin trovò posto, in Italia, sulle pagine de «La Domenica del Corriere» (1907) e quindi de «Il Romanzo Mensile» (1910), per poi passare con gli anni Venti all’editore Sonzogno che, all’inizio degli anni Trenta, era già alla terza ristampa completa delle sue avventure. Arsenio Lupin, per certi versi era debitore del personaggio di Rocambole, creato nel 1859 da Ponson du Terrail, e a sua volta probabilmente ispirato alle avventure tra il reale ed il romanzato di Eugene-Francois Vidocq (1776-1857: ladro, falsario, galeotto e spia della polizia che in seguito divenne poliziotto ed inventò la Sûreté), ma molto più sicuramente la sua figura fu ispirata al Lord Raffles di Hornung, il primo “ladro gentiluomo” (1899). Tuttavia in Lupin i tipici tratti dell’eroe popolare sono arricchiti da una componente libertina e ludica che trova appunto riscontro nella letteratura francese fin de siecle. Ma il vero salto di qualità, nel senso del noir, si avrà con Fantomas (Fantìmas nell’edizione originale) che uscì nelle librerie francesi il 10 febbraio del 1911 con un grande lancio pubblicitario, ottenendo un immediato successo che portò alla pubblicazione, presso l’editore Fayard, di oltre trenta romanzi nell’arco di soli tre anni (1911-1913). Sulla scorta di tale notorietà nel 1913-14 il regista Louis Feuillade realizzò cinque film tratti dai primi cinque racconti, inaugurando così la moda dei “serial”.  Fantomas fu dipinto come un criminale ingegnosissimo nelle trasformazioni, sfuggente e dedito a qualunque delitto, anche il più efferato. Il suo apparire segnò perciò una precisa svolta perché Fantomas fu certamente il primo “eroe” completamente negativo: eroe perché ciò nonostante le sue gesta hanno conquistato milioni di lettori, entrando pure nel linguaggio quotidiano. Infatti ancora oggi per indicare una persona che sfugge ad ogni riconoscimento si usa l’aggettivo “fantomatico”.
Sulla scia di questi personaggi il mercato fu invaso sino alla fine degli anni Venti da una pletora di epigoni, un mare di dispense con i personaggi più variegati (e che Hugh Greene, verso il 1970, nel presentare un’antologia di questi autori minori soprannominò “I rivali di Sherlock Holmes”) ma con un unica accentuazione di fondo che andò via via modificandosi da “detective story” alla nuova dizione che proveniva dal mondo anglosassone: “thriller”.
Non si trattava solo di un restyling linguistico, come Alberto Rossi ben puntualizzava in un articolo titolato Il romanzo criminale, pubblicato su «La Gazzetta del Popolo» di Roma il 25 febbraio 1931: «... quel genere di romanzo che di solito si chiama poliziesco – commentava Rossi - lassù in Inghilterra viene denominato sbrigativamente con una sola parola comprensiva “thriller”: che sarebbe come a dire, che so, romanzo del brivido e che noi alla meno peggio si potrebbe chiamare “romanzo criminale”. Difatti poliziesco esso non lo è sempre: d’avventure ancor meno... Criminale esso lo è invece si può dire in ogni caso: poiché un buon delitto misterioso, o almeno il tentativo, o almeno il sospetto, stanno come ottimi generatori di quel particolare stato di angosciosa curiosità che è scopo precipuo di tali libri di destare e di non lasciar più cadere sino alla fine» .
Così, mentre il fumetto comico prosperava, le pulp magazines, con i loro racconti noir (ma dal 1926 aveva visto la luce anche il primo “magazine” di fantascienza) stavano preparando la strada ad un cambio di rotta anche nei comics, cioè avevano in pratica  preparato gran parte del pubblico dei lettori americani al salto di qualità, con l’avvio anche nel settore dei fumetti di nuovi generi che fossero solo il comico. Così, tra il 1929 ed il 1935 nacquero negli Stati Uniti gran parte di quegli eroi di cartone tuttora amati: da Buck Rogers a Brick Bradford, a Flash Gordon, a Mandrake, a Phantom, solo per citare i più conosciuti, introducendo le nuove coordinate dell’avventura e della fantascienza.
Ma quello che a noi interessa di più è Dick Tracy. Il personaggio di questo “duro” poliziotto americano nacque in seguito alla notevole campagna giornalistica condotta dal «Chicago Tribune» nel corso del 1931 volta a contrastare lo strapotere della malavita locale. E così, con un anno di anticipo sullo Scarface di Howard Hawks, il 4 e l’11 ottobre del 1931 apparvero quasi in contemporanea sia la serie delle strisce giornaliere, in bianconero, sia quella della grandi tavole domenicali, a colori. La vendetta nei confronti delle gang era dunque il tema di fondo delle storie ideate e disegnate da Chester Gould (1900-1985), una vendetta che il lettore, quasi irretito dai meccanismi d’identificazione buono-cattivo suggeriti dalle trame e dagli efficaci disegni, finiva per scambiare per “giustizia”.  Dick Tracy nasceva anche in un clima cinematografico propizio, cioè in un momento in cui storie di gangster divenivano sempre più i soggetti preferiti dai nuovi registi. Little Cesar (Piccolo Cesare) di Merwin LeRoy con Edward G. Robinson uscì infatti nel 1930, mentre ai primi del 1931 data l’uscita di Public Enemy (Pericolo pubblico) che assume il volto di James Cagney. Ed è probabilmente al suo volto squadrato, al suo sguardo truce ed al suo tozzo fisico che guardò Gould per delineare il suo personaggio, peraltro operando subito l’inversione dei ruoli: se Cagney era il re dei gangster, Dick Tracy si candidò ad essere il re dei poliziotti. Tuttavia il segno grafico che Gould usò per Tracy risentiva ancora di echi umoristici, ed in questo risiede forse anche la sua forza, cioè in quest’impasto tra un vigoroso realismo (bellissime le sue crude ombre metropolitane) e le tipiche deformazioni di un segno che tende spesso al grottesco (di qui l’appellativo di Grosz americano dato all’autore). Al di là dei più immediati riferimenti cinematografici bisogna però dire che Dick Tracy seguiva, in ambito fumettistico, quella che era stata la riscossa degli autori americani nel panorama dei cosiddetti romanzi gialli, riprendendone anche temi e schemi narrativi. Infatti per tutti gli anni Venti il panorama editoriale era stato dominato dalla preponderante fama degli scrittori inglesi, Edgar Wallace in testa. Nel 1926 il critico d’arte W. Huntington Wright con lo pseudonimo di S.S. Van Dine aveva creato un detective alla Sherlock Homes trapiantato in America: Philo Vance. Nel 1928 i cugini Dannay e Lee avevano ideato Ellery Queen (che poi figurò anche come autore dei romanzi). Ma si trattava pur sempre di un’imitazione dell’english style. Nel 1929, però, uscirono i due primi racconti di Samuel Dashiell Hammett: Red Harvest (Piombo e sangue) e The Dain Curse (Il  bacio della violenza). Era un nuovo scenario quello proposto dall’autore, che portava in primo piano la guerra delle gang, i regni di potenti criminali d’oltreoceano e l’impotenza della polizia spesso corrotta. Il nuovo filone venne denominato “hard boiled novel” (“romanzi bollenti”), per certi versi fin troppo crudo, ma per altri invece una salutare boccata di ossigeno dopo anni di retorica buonista. Questi nuovi detectives ideati da Dashiell Hammett non avevano nulla a che spartire con un Philo Vance, che collezionava acquerelli di Cézanne, o con Ellery Queen circondato da un esotico domestico giapponese. Essi invece rischiavano la pelle tutti i giorni per racimolare quanto bastava per tirare avanti. Si trattava di personaggi che all’inizio videro la luce sulle già citate «pulp magazines», le riviste popolari (letteralmente: “fatte con carta scadente”, ma che per converso assumono il significato di “deteriori” o “volgari”) come «Black Mask», «Argosy» e «All-Story Weekly»,  le quali, nonostante la vasta tiratura non riuscivano però a raggiungere grandi fasce della popolazione. E’ a questo punto che il fumetto si dimostrò un potente mezzo di comunicazione di massa, proprio perché essendo diretto alle masse “non adeguatamente letterate” fu in grado di captarne immediatamente i nuovi umori ai quali il nuovo gusto “forte” dei racconti alla Hammett dava una risposta perfetta. Il “passaggio” a vignette di queste storie produsse perciò una vera e propria diffusione a più livelli ed a tutti gli strati della popolazione di lettori dei quotidiani statunitensi.
Se Dick Tracy aveva aperto la strada, con l’Agente Segreto X-9, uscito agli inizi del 1934, si verificò un adeguamento al nuovo trend del poliziesco che ormai era, anche in campo cinematografico, il genere dominante. Per questo nuovo personaggio, nato nelle intenzioni della King Features per contrastare il successo di Tracy, fu messo sotto contratto proprio quel Dashiell Hammett che aveva avviata la vogue delle “hard boiled novels”, affiancandolo tuttavia al nuovo astro nascente del fumetto, quell’Alexander Raymond che già da qualche anno era il “ghost” (l’aiuto: in realtà il “disegnatore ombra”, cioè spesso il vero esecutore dei disegni) di Lyman Young nelle tavole di Tim Tyler’s Luck  (in Italia ribattezzati Cino e Franco). Il segno di Raymond, che era padrone dell’anatomia (specie di quella femminile), introduceva una declinazione più elegante e suadente pur nell’intreccio di storie a volte crude, ma mai scabrose come nel caso di Tracy. Del resto lo stesso Hammett, alle soglie del 1934, si ritrovava ben meno cruento, anzi addolcito, e questo gli permise di portare sullo schermo, proprio in quel 1934, un suo romanzo, The Tin Man (L’Uomo Ombra) interpretato da William Powell e Myrna Loy. Il risultato di questo connubio tra le storie, a volte crude, escogitate da Hammett ed il tratto sinuoso ed elegante di Raymond fu un felice compromesso tra realismo e sentimento, una sorta di feuilletton rosa-noir, che incontrò un grandissimo successo. In seguito, però, il personaggio passò nelle mani di altri soggettisti e disegnatori che spesso ne alterarono profondamente le caratteristiche. Ad esempio, già sul finire degli anni Trenta i testi furono affidati a Leslie Charteris (autore de Il Santo) che ne addolcì ulteriormente le trame, mentre i disegni passarono prima attravrerso il tratto duro e arcigno di Charles Flanders e poi a quello caricaturale di N.A. Fonsky. Poi, nel corso della 2ª guerra mondiale,  X-9 passò alla matita di Mel Graff che lo ringiovanì, gli diede una famiglia ed un lavoro all’F.B.I. e lo disegnò sino alla fine degli anni Cinquanta. Dopo alcuni anni nelle mani di Bob Lewis (alias Bob Lubbers), sul finire degli anni Sessanta passò infine all’abile mano di Al Williamson, un disegnatore dalla vena Raymondiana, che lo ribattezzò Secret Agente Corrigan e lo rituffò nelle cupe atmosfere degli anni Trenta, in questo modo rivitalizzandolo.
Un altro personaggio, molto crudo nelle sue trame, sulle orme del miglior Dick Tracy fu Red Barry, in Italia ribattezzato Bob Star, che nacque quasi per reazione alla sconfitta subita da un altro Gould, Will, che arrivò secondo al concorso indetto dalla King Features per il disegnatore della serie di X-9, indetto nel 1933, e appunto vinto da Raymond. La giuria restò infatti colpita dallo stile incisivo di Gould e pensò di affidargli la serie del cosiddetto “poliziotto dai capelli rossi” che iniziò ad apparire sui giornali americani il 19 marzo 1934. Il successo fu grande e perciò il 3 marzo 1935 venne dato il via anche alla versione domenicale con tavole a colori che però venne sospesa alla fine del 1936. Tuttavia quando, quattro anni più tardi, nel 1940, venne richiesto all’autore di limitare la violenza che caratterizzava le sue storie per tutta risposta Gould chiuse la serie e se ne andò. Barry era un poliziotto sullo stile del primo Hammett di fine anni Venti, che si muoveva lontano dai lussuosi palazzi di Manhattan, spesso calato dal suo autore in azioni di una crudezza non riscontrabili neanche nel più “duro” Dick Tracy, nel quale il tratto a volte umoristico mitigava il “peso” degli eventi raffigurati.
In quegli anni, negli Stati Uniti, si verificò una sorta di parallelismo tra gli sviluppi dei film polizieschi e del relativo settore a fumetti, nel quale spesso è il secondo che apriva nuove strade. E’ il caso di Radio Patrol (Radio Pattuglia) nato dall’esigenza di una maggior identificazione popolare con le forze dell’ordine nella loro lotta al crimine. All’inizio degli anni Trenta, infatti, quando lo strapotere delle gang rischiò di paralizzare la reazione delle istituzioni e vi era bisogno di sostenere anche civilmente le forze dell’ordine, vennero creati quei personaggi alla Dick Tracy, dalle caratteristiche quasi invincibili e sino ad allora spesso attribuite, dalla letteratura d’appendice, ai vari fuorilegge, alla Fantomas. Si trattava però di eroi ideali, e la necessità ora era invece di scovare degli eroi “della porta accanto”, nei quali tutti si potessero riconoscere. Su queste premesse prese l’avvio una storia che vedeva un gruppo di ragazzi ed un sergente alle prese con il mondo del crimine, anche utilizzando l’ausilio di radio portatile per comunicare tra loro in tempo reale (di qui il nome di Radio Pattuglia). Disegnata da Charlie Schmidt su testi di Ed Sullivan, iniziò ad uscire come striscia giornaliera il 16 aprile del 1934, prendendo dunque subito le distanze dall’Agente Segreto X-9 e allacciandosi (sostituendola) alla serie di Pinkerton junior, ideata già nel 1933 dagli stessi autori, che narrava le avventure di un giovanetto all’interno della più famosa agenzia investigativa americana, la Pinkerton, appunto. Che l’idea non fosse campata in aria lo confermò l’anno seguente l’uscita del film G-Men (in Italia La pattuglia dei senza paura) diretto da William Keighley. In contro tendenza, cioè di ispirazione inglese è invece Inspector Wade (L’Ispettore Wade) che appunto è l’adattamento a fumetti dei migliori romanzi di Edgar Wallace. Il personaggio di Wade, anch’esso uscito nel 1934 su testi di Sheldon Stark e disegni di Lyman Andeson, era indirizzato a quella fetta di lettori che non gradivano gli eccessi alla Hammett e che erano piuttosto ancorati alla detection tradizionale con colpo di scena finale. A chiudere questa vogue di fumetti tra il poliziesco ed il noir, va infine ricordata la versione a fumetti di Charlie Chan, un poliziotto cinese che opera a Honolulu, nella Hawai. Sebbene il personaggio fosse stato creato come romanzo già nel 1925 dal “giallista” Earl Derr Biggers, fu solo dopo la sua riduzione cinematografica, del 1938, che raggiunse la notorietà. In questo caso, la serie a fumetti, su disegni di Alfred Andriola andò propriamente a ricalcare le fattezze di Warner Oland, l’attore che impersonò Chan sullo schermo. L’esempio, in seguito, fu spesso seguito: ricordiamo, tra le altre, le strisce di Mike Roy, ispirate al Nero Wolfe di Rex Stout, o, per uscire dal genere, la fortunata serie su Dr. Kildare, tratta dall’omonimo serial televisivo.
Va inoltre annotato come questo generale clima di detection abbia ad un certo punto influenzato anche i comics più tradizionali, di evasione per eccellenza. Varrà d’esempio citare il caso di Topolino, per il quale Disney scriverà alcune storie poliziesche come Topolino e Pippo poliziotti (1933) e Topolino giornalista (1935) ambientata nel mondo del racket, Topolino agente della polizia segreta (1936) sul genere delle spy-stories, e infine Topolino e il mistero di Macchia nera (1939) dove compare il cattivo-mascherato.
Ma gli anni Trenta, così ricchi di creazioni nel campo dei fumetti ci riservano ancora delle sorprese. Tra il 1934 ed il 1935 il soggettista Lee Falk crea infatti due personaggi epocali, che hanno affascinato milioni di lettori nel corso di oltre sessant’anni. Mi riferisco ovviamente a Mandrake (1934) e Phantom (L’Uomo Mascherato, 1935). Sia nell’uno che nell’altro gli accenti noir sono labili, sfumati, ma comunque presenti, specie nei primi episodi di Mandrake nei quali la caratterizzazione del personaggio pone ancora l’accento sul binomio mistero-suspence. In seguito il passaggio a “semplice” ipnotizzatore toglierà molto di quel fascino iniziale, in parte compensato via via da una più intensa accentuazione fantascientifica. In Phantom, invece, al di là del fascino dell’esotico, l’elemento nuovo e  preponderante è quello della calzamaglia e della maschera. Nasce qui, sebbene ancora in versione positivista, il prototipo dell’«uomo mascherato» in genere che, nel momento del rovesciamento semantico si ritroverà invece perfettamente calato nel ruolo di antagonista del Bene. E qui nasce anche la questione dell’identità, un interrogativo, spesso una suspence di fondo, comunque un fascino ulteriore, sia essa del Buono che, in seguito, del Cattivo.
Per chiudere questo panorama “Anni Trenta” va menzionato il detective nostrano: quel Dick Fulmine ideato da Carlo Cossio nel 1938, anch’esso agente di polizia americana. Rimarrà un comprimario dei grandi del fumetti americani sino a che non si scrollerà di dosso quell’etichetta da detective dilettante per tuffarsi invece in ben più avventurose storie “nostrane”.

 

 

Il dopoguerra: sulla scia di Sherlock Holmes

 

Com’è noto, le truppe americane erano entrate solo da poche settimane a Roma, nel 1944, che già era pronto il primo giornale del dopoguerra, «L’Avventura», per certi versi ingenuamente ancora modellato su «L’Avventuroso». Dopo anni di guerra, la sete di evasione era grande. Terminate le ostilità vi fu anche una grande ripresa del “giallo” in tutti i settori. Il New Deal, assieme al suo creatore, Delano Rosevelt, se n’era andato, e ciò di cui si aveva bisogno erano i valori tradizionali. Così, nonostante i tentativi di autori come Mike Spillane di rinverdire i tempi di Dashiell Hammet, i personaggi più in voga divennero ben presto i vari Perry Mason, Nero Wolfe ed Ellery Queen. I modelli, insomma, erano quelli che rimontavano a Sherlock Holmes, seppure rivisitato: un investigatore possibilmente privato, molto intelligente, colto e di buona società. I tempi erano insomma maturi per un personaggio come Rip Kirby nato ancora una volta dalla matita di Alex Raymond su testi di Ward Greene. Kirby, vagamente somigliante ad X-9, assieme alla sua inseparabile pipa e al fido maggiordomo Desmond (un Watson rivisitato), è un vero e proprio “scienziato-criminologo”, una professione che porta avanti con il più perfetto english understatement, senza disdegnare, quando occorre, di esibire la sua abilità di fine boxeur, anziché usare armi da fuoco, che non sopporta. La sua è la versione aggiornata, con acume e intelligenza, dei grandi detective del passato, da Holmes in poi, oltretutto con una notevole caratterizzazione dei vari personaggi, che non sono mai propriamente di contorno. Alla morte di Raymond, nel 1956, la King Features seppe trovare un degno sostituto in John Prentice, un disegnatore che è riuscito a calarsi perfettamente nello stile del maestro.
Nell’Europa del dopoguerra, oltre al revival del “giallo classico” è anche vogue dei giustizieri mascherati. Nel 1945, Marcel Navarro e Pierre Mouchot (con gli pesudonimi di Malwyn Nash e Chott, creano Fantax che va considerato come il vero precursore dei fumetti neri dei successivi anni Sessanta. Provvisto di calzamaglia rossa e nera, con cappuccio e mantellina, un travestimento con il quale combatte il crimine, le sue storie erano spesso farcite di sequenze particolarmente violente, fatto che gli procurò non pochi guai con la censura. Anche in Italia nel 1945 vede la luce un giustiziere mascherato: Asso di Picche, creato da Mario Faustinelli e Hugo Pratt, un successo editoriale che darà vita ad uno staff (con, tra gli altri, Dino Battaglia, Alberto Ongaro, Paul Campani) ed anche ad una casa editrice sulla laguna veneziana (Pratt riprenderà l’idea del giustiziere mascherato nel 1966 con L’Ombra). L’anno seguente è la volta di Amok, il gigante mascherato», su testi di Cesare Solini e Antonio Canale (che si firma Tony Chan), e di Fulmine Mascherato, disegnato da Sinchetto su testi di Solini, Lavezzolo e Bonelli.
Nel 1948, ancora Bonelli rinnova Furio Almirante del periodo bellico ribatezzandolo Furio Mascherato, mentre del 1949 è l’uscita de Il Fantasma Verde disegnato da Fergal (Gallieno Ferri) che nello stesso anno crea anche la serie di Maskar diretta filiazione, ma meno violento, del francese Fantax.  I problemi con la censura, nell’Italia del primo dopoguerra sono ancora insuperabili per poter pensare di creare dei personaggi a fumetti non tanto innovativi ma almeno ai livelli del Fantomas letterario di quarant’anni prima. Del resto nemmeno gli Stati Uniti se la passavano meglio. All’inzio degli anni Cinquanta si era in pieno clima di “caccia alle streghe”, con il senatore MacCarthy che vedeva comunisti dappertutto. In  sintonia con una serie di B-Movies (pellicole di serie B) che stavano dilagando nelle sale cinematografiche la E.C. Comics lanciò una collana di “horror-comics” con splatter a go-go. Ma l’avventura durò poco: già nel 1954 il Comics Code Authority vietò l’impiego delle parole “terrore” e “orrore” nei titoli, nonché il mostrare scene raccapriccianti, eccessivi spargimenti di sangue, ecc. ... Ovvero l’intero repertorio Horror. Così per leggere quelle storie in Italia dovemmo attendere i primi anni Settanta con uno dei primi Oscar Mondadori dedicati al fumetto: Mezzanotte con Zio Tibia.

 

 

I “Fumetti per adulti”: il noir parla italiano

 

Novembre 1962. Nelle edicole appare una copertina con due occhi che “bucano” una maschera nera. Una donna in primo piano urla di terrore. Tra testata, titolo e sottotitolazione è un “pieno” di terminologia violenta: «brivido, diabolico, terrore».
Diabolik è il nome di questo ladro e spietato assassino in calzamaglia nera che ai meno giovani subito richiama alla mente le letture giovanili di Fantomas (oppure il Fantax a fumetti francese di pochi anni prima). E’ in effetti proprio al personaggio di Souvestre e Allain che le autrici (sì, due donne!), Angela e Luciana Giussani, sono debitrici. Ma questo poco importa. Il fattore principale è l’effetto di svecchiamento, da una parte, e scardinamento di un sistema ingessato, dall’altra, che di lì ad un paio d’anni sarà prodotto dall’apparizione di Diabolik, prima, e di tutti gli altri che verranno, poi. I lettori italiani, negli scenari di quegli albi, scoprirono così che il mondo degli eroi “buoni” era artefatto, oppure non esisteva. La realtà, la vita di tutti giorni, era invece più rappresentata in quei nuovi albi tascabili che recavano la scritta «per adulti». E, in effetti, molti giovanissimi di allora, che leggevano di nascosto quegli albi, forse divennero adulti un po’ prima, nel senso che scoprirono che la “vita vera”, con tutto il suo fardello di cose belle e brutte, assomigliava di più a quella di Diabolik e Kriminal che a quella de L’Uomo Mascherato e Gim Toro. Tornando a Diabolik, la veste grafica (i disegni) sin da subito si rivelò quasi “accessoria” (anzi i disegni dei primi numeri sono davvero brutti), proprio perché il piatto forte erano (e sono) le sceneggiature, e la creazione, numero dopo numero, di una serie di coordinate che sono rimaste più o meno inalterate nel tempo garantendone il successo sino ai nostri giorni. Diabolik, infatti, non fu mai inserito in un environment preciso e riconoscibile. Immaginarie sono le città in cui vive e agisce (Clerville, Ghenf, ecc.), di fantasia i nomi di stati o località. Indefinibili gli scenari, che potrebbero assomigliare di volta in volta a moltissimi luoghi italiani o stranieri. Anche la psicologia dei personaggi principali, Diabolik e la fedele compagna Eva Kant, è stata ben prevista e spesso fin troppo prevedibile, quanto invece sempre stupefacenti sono i trucchi che vengono messi in atto per raggiungere gli scopi prefissati. Il vero successo di Diabolik sta dunque qui, in quest’indeterminatezza, in questo lasciare inevase molte domande, e indistinto l’entourage del personaggio. Bisognerà infatti attendere cinque anni e mezzo, nel 1968, e 107 numeri per poterne sapere di più. L’albo n° 5 della settima serie, titolato Diabolik chi sei? diverrà infatti un must per chiunque voglia conoscere le origini del “re del terrore”. Chiuso, e protetto, com’è sempre stato in un suo microcosmo che lo ha tenuto distante dalle contingenze della realtà, Diabolik ha così evitato quel logoramento da troppa “umanizzazione” che ha colpito invece i suoi vari epigoni e rivali, oggi invece tutti scomparsi.
Diabolik regnò incontrastato per oltre un anno e mezzo finché, nell’agosto del 1964, fu la volta di un altro assassino mascherato, Kriminal: sempre questione di «k»! La risposta a Diabolik nasce dalla penna di Max Bunker (Luciano Secchi) con i disegni dell’esordiente Magnus (Roberto Raviola) che veste Kriminal con un’azzeccatissima calzamaglia in foggia di scheletro con un teschio come maschera. Si tratta di una risposta certo qualificata al successo di Diabolik, ma  quello che non si comprende è come mai il mercato italiano sia rimasto immobile per 21 mesi dall’uscita del primo numero di Diabolik. A dispetto di ciò, Kriminal nasce apparentemente con una marcia in più, e qui forse si capisce che il personaggio è stato studiato a fondo, così come a fondo è stato studiato anche Diabolik, potendolo analizzare nel corso di oltre 20 uscite. Kriminal perciò “aggiusta il tiro”, rispetto al rivale, dotandosi sin da subito di un aspetto grafico più accattivante, non solo nei disegni di Magnus, decisamente più appetibili, ma anche nelle copertine di Luigi Corteggi, scelte volutamente a mezza tinta, in un panorama generale di grafica a tinte piatte cui lo stesso Diabolik si era allineato. Per quanto riguarda invece le sceneggiature, Luciano Secchi in quel periodo diede il meglio di sé, riuscendo a creare un mix equilibratissimo di brivido, horror, suspence, e humor, introducendo infine, con molta eleganza, anche l’elemento erotico. Tutto ciò contribuì a delineare Kriminal come personaggio a tutto tondo, con una sua personalità, psicologia e sentimenti: un’umanità, insomma. Dato che sembrava mancare a Diabolik, nella sua efficiente freddezza. Anche il contesto in cui doveva muoversi fu definito con riferimenti sempre attinenti alla realtà, e quindi riconoscibile, così come i temi furono spesso riferiti all’attualità, a problemi effettivi, a situazioni di cronaca. Basteranno pochi titoli come esempio: Il crimine non paga, n° 17 (la “società e moralità”); Febbre di droga, n° 26 (già si parla di traffico e spaccio di eroina); Terrore in Alto-Adige, n° 34 (quasi nell’immediatezza della stagione degli attentati ai tralicci); Perry non si tocca, n° 69 (anche i criminali hanno un cuore…); Sciopero, n° 71 (ieri come… oggi); La guerra è bella solo per chi specula, n° 85 (il traffico d’armi, il film di Sordi…), e così via. Insomma un personaggio sempre più immerso nella vita reale, se non nella quotidianità. Ad un certo punto, però, con l’abbandono di Magnus, e nonostante l’apporto di validi disegnatori come Romanini, Kriminal si ritrovò come svuotato e “datato”: non aveva più niente da svelare. Anche la carta della “gioventù misteriosa”, a differenza che in Diabolik, era stata bruciata troppo presto, con il n° 64 (Il Segreto di Kriminal) del 1966, a meno di soli due anni dal primo numero. Furono gli stessi sceneggiatori ad accorgersene, facendo esclamare a Lola, la donna di Kriminal, in uno degli ultimi numeri (per la precisione il 400): «Il nostro rapporto si trascina avanti come quello di due vecchi coniugi... viviamo in un isola bellissima ma nella solitudine più nera. Noi siamo sepolti! Anche tu non sei più quello di un tempo, sei invecchiato, sei demodé... guardati allo specchio!».  Di lì a pochi numeri, con il 419 del novembre 1974, Kriminal chiuse i battenti, per (come si diceva una volta) “consunzione”, ovvero avendo esaurito tutte le “cartucce” ma soprattutto quella “carica energetica iniziale”. Con ben altro spirito, invece,  si guardava nello specchio (meglio dire si ammirava) nel primo numero di Satanik (uscito nelle edicole nel dicembre 1964), Marny Bannister, una brutta (anzi sfigurata) scienziata newyorkese che, una volta bevuto un filtro di sua invenzione, si ritrovò bella come una silfide, una rossa mozzafiato dal corpo d’ebano.  Dunque una bellezza dovuta alla chimica e forse anche al Diavolo (Faust). E, ancora una volta era una «k», nella testata, i cui appellativi avrebbero esplorato di lì a poco tutto l’alfabeto del noir.  Satanik, come denuncia il nome, era un salto nelle «spire del Diavolo», un passo verso l’Horror, che condisce le sue attività criminose. Ma anche una porta aperta sulla “magia nera”. Con, nuovo parto della coppia Bunker & Magnus, Secchi supera sé stesso creando un personaggio che va oltre gli ambiti del vecchio “romanzo criminale”, seppur rinnovato, ma tuffandosi con voluttuoso piacere letterario e citazioni sta verso le opere di Goethe (Faust), Stevenson (Jekyll & Hyde), Poe (Il Maelström, e moltri altri), Wilde (Il ritratto di Dorian Gray, rivisitato ne Il ritratto di Alex Bey, n° 15), e poi Lovercraft e Maupassant, così come verso i film di Hitchcock (Psico, n° 20, che cita testualmente il titolo del famoso film). Si tratta di un doppio livello di lettura, quello delle citazioni letterarie, che può essere colto oppure no, ma che non inficia comunque una lettura lineare del personaggio.
Anche in Satanik, come in Kriminal, è presente una profonda caratterizzazione del personaggio, che viveva spesso con disagio la sua periodica trasformazione da brutta a bella e viceversa. Con  Satanik si spinge oltre un altro limite che in Kriminal era stato appena toccato ed in Diabolik era praticamente assente: quello dell’erotismo. Qui, infatti, sul e con il corpo di Satanik il pennino del grande Magnus esprime piacevolezze ben più apprezzabili che non lungo il muscoloso profilo di Kriminal.  Ma, ricordiamolo, Satanik non è solo “forme”, ma anche, e spesso, sostanza proprio in virtù di quei riferimenti letterari cui si diceva più sopra.
Di lì a poco seguì una pletora di imitatori, alcuni pedissequi, altri sostenuti da sceneggiature e disegni più che dignitosi. Del resto, sulla strada aperta da Diabolik ed allargata con forza da Kriminal e Satanik c’era spazio per tanti, per soddisfare le richieste di un pubblico che cresceva con indici esponenziali. Tra i vari epigoni, meritevoli di citazione, vi è il Demoniak ideato da Furio Arrasich nel 1965, con disegni di Franco Verola, era un nero con caratteristiche tutte sue, parascientifiche, e certamente non riferito ai tre grandi. Originale anche la tesi di fondo della serie di Fantax, pure ideato da Arrasich, che si offriva con una doppia identità: poliziotto da una parte e criminale dall’altra. Da ricordare anche Zakimort, un criminale in calzamaglia nera (formosa) e maschera sugli occhi: la risposta “femminile” dell’editore di Diabolik al grande stuolo di epigoni del re dei fumetti neri, ed anche un fumetto realizzato con cura, nei disegni e nelle trame. Il duo Magnus & Bunker, invece, non pago, avviò pure la serie di Agente SS 018 ispirata alle gesta dell’agente segreto 007 di Fleming, che in quegli anni furoreggiava sul grande schermo. Per tutti gli altri, moltissimi, emuli si trattò di vere e proprie copie dei personaggi maggiori, stese con minime varianti di sceneggiatura, ma di fatto su di loro estremamente appiattiti. Da ricordare, forse in ultimo, due serie ispirate l’una a Kriminal (Killing, con teschio e calzamaglia a scheletro in negativo), l’altra a Diabolik (Genius, con regolare calzamaglia noir) realizzate anziché a fumetti con la tecnica del fotoromanzo.
La vogue del noir nel giro di sette-otto anni si smontò. Il mercato era stato troppo saturato da prodotti spesso dozzinali ed a volte anche scabrosi. Inoltre, già alla metà degli anni Sessanta vi erano state levate di scudi dai soliti bacchettoni di provincia che avevano indotto gli editori, per amor di sopravvivenza, a limitare la vis creativa di soggettisti e disegnatori. Chi ne risentì di più furono proprio quei personaggi che avevano fatto della gratuita esibizione di sesso e violenza la loro bandiera. Così, con i primi anni Settanta, scomparsi gran parte dei personaggi, tranne l’inossidabile Diabolik, prese via via corpo il genere più propriamente Horror che vide le sue prime manifestazioni nella serie Terror edita dalla Erregi nel 1966, sulla scia del grande successo dei suoi fumetti erotici di punta: Isabella e Messalina, così come di Jacula, la donna-vampira. Il terreno era aperto per un’altra ondata di terrificanti incubi a fumetti: i nipotini di Poe erano all’opera. Tuttavia per tutti gli anni Settanta, si trattò quasi sempre di produzioni di bassa qualità ad eccezione della rivista «Horror», nata sulla fine del decennio precedente per opera meritoria di Pier Carpi e Alfredo Castelli. Per poter leggere un fumetto horror di grande qualità, a volte con accentuazioni noir, bisognerà però attendere il 1985, con Dylan Dog.
Ma questa è storia recente.

 

 


* Questo testo è parte di un testo più ampio sul tema del Noir in letteratura e nel fumetto (dal quale è stato appunto estrapolato per questo sito), ed è stato precedentemente pubblicato in "Effetto noir. Un sottile senso di piacevole paura", catalogo dell’omonima mostra itinerante  (Trento, Carpi e Torino), a cura di Roberto Festi e Maurizio Scudiero, edito da Stampalith nell’aprile del 2000.
Copyright dell’autore, dei curatori e dell’editore.

 


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